La storia di padre Lodovico Pavoni, precursore bresciano di Giovanni Bosco


Aldo Maria Valli


Santi sociali. Basta pronunciare queste due parole per andare subito con il pensiero a un’epoca, l’Ottocento, e in una regione, il Piemonte, nelle quali la santità, nel confronto diretto con le trasformazioni innescate dai processi di industrializzazione, si è manifestata in uomini dalla tempra eccezionale. Pensiamo a Giovanni Bosco, Giuseppe Cafasso, Giuseppe Benedetto Cottolengo, Francesco Faà di Bruno, Leonardo Murialdo, Giuseppe Allamano. Una schiera di santi e beati accomunati dalla sollecitudine verso i giovani più emarginati, i lavoratori, i disabili, i malati.

L’elenco resterebbe però ingiustamente incompleto se non ci trasferissimo anche in Lombardia, e più precisamente a Brescia, per inserirvi un altro uomo, un altro prete, che visse tra la fine del Settecento e la prima metà dell’Ottocento e che possiamo ben definire, a tutti gli effetti, «santo sociale». È Lodovico Pavoni, fondatore della congregazione dei Figli di Maria Immacolata.

Occorre dirlo subito. Per indole naturale, stile di vita, modo di comunicare e storia personale, Pavoni è un antipersonaggio. Non si è segnalato per imprese da prima pagina, non ha lasciato (al di fuori delle lettere, dei regolamenti e dei documenti che ha prodotto per promuovere le sue numerose iniziative) opere scritte meritevoli di passare alla storia, non si è guadagnato titoli accademici, non è stato un teologo d’eccezione né un gran predicatore né un carismatico trascinatore di folle.

È stato piuttosto un uomo del fare, dell’azione. Ma dell’azione soprattutto silenziosa, mai sbandierata. Da buon lombardo, e da buon bresciano, ha privilegiato la sostanza rispetto all’apparenza, il contenuto rispetto al contenitore. E se ha fatto tutto con una determinazione e un senso del sacrificio che sono arrivati, lo si può ben dire, all’eroismo, è anche vero che ha sempre agito con totale semplicità, umiltà e modestia. Così che se da un lato si è messo al riparo dalle celebrazioni postume (dalle quali si tenne sempre a debita distanza anche da vivo), dall’altro si è esposto all’inevitabile rischio della sottovalutazione.

E pensare che Pavoni ha tutte le carte in regola per essere considerato, e studiato, come un autentico precursore. In anticipo, per esempio, sulle intuizioni e sulle esperienze di un don Bosco o un don Murialdo, vede nel fenomeno della marginalità giovanile uno dei grandi drammi che caratterizzano l’età di passaggio fra l’ancien régime e la società industrializzata, e capisce che la via del riscatto può passare soltanto attraverso l’educazione integrale della persona, con un occhio di riguardo alla formazione professionale, perché se è vero che ogni persona, compresa la più povera e svantaggiata, possiede in sé un’inviolabile dignità, è fuori discussione che il riconoscimento sociale di tale dignità e l’affrancamento dall’emarginazione sono possibili grazie al lavoro.

Quando Pavoni viene alla luce il mondo vive una drammatica frattura. Tutto cambia repentinamente e il buon prete bresciano si troverà proprio nell’occhio del ciclone, tanto che la sua fine coinciderà con la conclusione delle tragiche dieci giornate di Brescia. Ma proprio in questo sovrapporsi di date e di circostanze personali e storiche c’è la lezione che Pavoni è in grado di donarci ancora oggi, con inalterata efficacia.

Il 23 marzo 1849, nella «fatal Novara», finisce la prima guerra d’indipendenza. Finisce tragicamente, con le truppe austriache di Radetzky che travolgono l’esercito piemontese e il re Carlo Alberto che, costretto a chiedere l’armistizio, abdica a favore del figlio. In quello stesso giorno a Brescia scoppia la rivolta che sarà chiamata delle «dieci giornate» e, per l’ardimento dei combattenti, le meriterà il titolo di «leonessa d’Italia». La mattina dopo, Lodovico Pavoni, prete di sessantacinque anni, mette al riparo i ragazzi da lui assistiti e i suoi collaboratori raggiungendo con loro Saiano, a una quindicina di chilometri dalla città, dove il gruppo dispone di una residenza. Ma le fatiche del viaggio a piedi, nella bufera, e le preoccupazioni di quei giorni logorano il suo fisico: il sacerdote, stremato, crolla, colpito da polmonite acuta. È il primo giorno di aprile, domenica delle palme, l’ultima delle dieci giornate di Brescia.

Un mese dopo, per le esequie solenni, a Brescia, nonostante il momento così difficile, una vera e propria manifestazione d’affetto popolare coinvolge centinaia e centinaia di persone. Quel prete modesto, che in vita non volle mai mettersi in mostra ma destinò ogni sua risorsa ai ragazzi più svantaggiati, è onorato come un grande esempio di valori umani e cristiani.

La vita di padre Lodovico è tutta da leggere e da studiare. Mentre avvengono rivolgimenti epocali che mettono in discussione secolari certezze e sconvolgono le basi del vivere sociale, mentre perfino la fede religiosa e la stessa istituzione ecclesiale fanno i conti con un processo di contestazione radicale, Pavoni mantiene una fedeltà e una coerenza cristiana che però non si traducono in nostalgia per il passato e in rifiuto del cambiamento, ma diventano il propellente per un’azione di carità che si fa carico della nuova realtà, la interpreta alla luce del Vangelo e la trasforma in occasione di rinnovato vincolo con quel Signore che non lascia mai soli i suoi figli, specialmente nel momento della prova.

Non sono poche le congregazioni moderne che considerano Lodovico Pavoni un punto di riferimento come ideatore di una nuova figura di religioso, inteso sia come sacerdote sia come laico. L’integrazione delle due figure, all’interno di un unico disegno, senza gerarchie ma con pari dignità di consacrazione e ruoli complementari, costituisce di per sé un modello innovativo, ma è la finalità del progetto a risultare particolarmente avanzata. Se l’educazione religiosa resta l’obiettivo fondamentale, Pavoni vede nell’attività professionale il terreno più idoneo per una formazione che riguarda tutti gli aspetti della persona. La spiritualità che anima il progetto affonda le radici in quella di sant’Ignazio di Loyola, san Francesco di Sales, sant’Alfonso Maria de’ Liguori: vita di preghiera e di penitenza, sobrietà assoluta, azione militante al servizio della Chiesa, attenzione per i poveri e soprattutto per i giovani, semplicità, visione attiva della santità in quanto obiettivo che ogni cristiano è chiamato a perseguire, nel proprio tempo e secondo le proprie attitudini, vivendo immerso nel mondo.

Pavoni non è stato un pedagogista, eppure ha messo in pratica un vero e proprio metodo educativo che si caratterizza per l’accento sulla prevenzione. La centralità della fede cristiana, l’amore per ogni persona, l’importanza del lavoro come strumento di promozione umana e sociale, la fermezza delle regole all’interno di un’organizzazione che è però di tipo familiare, l’attenzione posta al rapporto personale e il ricorso all’argomentazione ragionevole piuttosto che all’imposizione: ecco le componenti di un progetto che mira a dotare i giovani degli strumenti indispensabili per garantire loro una personalità equilibrata e un ruolo sociale riconosciuto, prima che l’impatto con la realtà sociale li spinga inesorabilmente ai margini, con tutti i costi personali e collettivi che ne conseguono.

Si innesta qui la sua idea di collegio d’arti, assoluta novità per l’epoca. Infatti, se esistevano già strutture assistenziali come brefotrofi per bambini orfani o abbandonati, scuole popolari (come quelle fondate da san Giuseppe Calasanzio nel Cinquecento) e collegi di studio, e se, quasi in contemporanea con Pavoni, don Ferrante Aporti apre a Cremona il primo asilo d’infanzia per i bambini delle classi più povere, l’istituto che vede la luce a Brescia è il primo nel suo genere: si tratta di una vera scuola tecnico-professionale dotata di laboratori e officine che non solo permettono ai giovani di esercitarsi, ma diventano centri produttivi. E se poi pensiamo al numero di profili professionali (ben undici: tipografi, calcografi, stampatori, legatori, cartolai, argentieri, fabbri ferrai, falegnami, tornitori, calzolai, agricoltori), vediamo che Pavoni ha davvero realizzato in anticipo quella che più tardi diventerà la formazione professionale introdotta e riconosciuta nell’ordinamento scolastico.

Una trattazione a parte merita poi la sua attenzione per la stampa e per i libri, un’autentica passione che lo porterà a diventare a tutti gli effetti editore, con una produzione straordinaria per i tempi e per i mezzi a disposizione (in ventotto anni, più di trecento titoli), con una grande varietà di argomenti (tutti scelti da lui in prima persona), ma anche con estrema coerenza e con la capacità di coagulare attorno all’istituto alcuni degli esponenti più brillanti della cultura bresciana del tempo.

Pavoni acquisterà man mano una consapevolezza sempre più chiara e precisa delle esigenze sociali del suo tempo: lo farà osservando la realtà, soprattutto al seguito di un grande vescovo, Gabrio Maria Nava, cresciuto, a sua volta, alla scuola di un santo riformatore come Carlo Borromeo, e metterà ogni sua risorsa, morale e pratica, al servizio della causa che sceglierà di servire.

Qui le radici lombarde dell’azione e della santità di Lodovico Pavoni si mostrano con chiarezza. Il giovane prete, che avverte dentro di sé il desiderio di spendersi per i giovani meno fortunati, esamina la situazione sociale ed elabora soluzioni concrete. Come il samaritano, non si limita a un’esortazione e non dà lezioni. Piuttosto si rimbocca le maniche e si mette a curare le ferite, comprese quelle interiori.

Pavoni è un prete dell’inizio dell’Ottocento e quindi non possiamo aspettarci da lui un tipo di autoconsapevolezza spirituale e di analisi sociale che, all’interno della Chiesa cattolica, arriveranno ben più tardi. Eppure, restando pienamente uomo del suo tempo, riesce, proprio alla luce dell’insegnamento evangelico, a manifestare e applicare quella fantasia della carità (per usare un’espressione cara a Giovanni Paolo II) che contraddistingue tutti i grandi santi sociali.

Pavoni nasce in una famiglia cristiana, solida e unita, ed è proprio questa idea di famiglia il primo mattone messo alla base della sua costruzione. Nell’edificazione dell’oratorio, e poi dell’istituto con le scuole professionali e infine della congregazione religiosa, privilegerà sempre questa parola: famiglia. I membri della comunità non devono sentirsi semplici ospiti o, peggio ancora, come si direbbe oggi, fruitori di un servizio. Allo stesso modo, coloro che si mettono dalla parte dei bisognosi non devono pensare a loro stessi come a erogatori di prestazioni destinate a un gruppo più o meno grande di utenti. Non è così che ragiona e procede un cristiano. L’oratorio, l’istituto e la congregazione sono e resteranno a tutti gli effetti una famiglia perché lì si viene accolti per quello che si è e perché lì si è amati.

Lodovico Pavoni vede che il grande bisogno di ogni uomo, in ogni tempo, è l’amore. E vede quanta sofferenza personale e quanto disagio sociale nascono proprio dalla mancanza di amore. Ecco perché si dedica agli orfani e poi ai sordomuti. Perché, per motivi a volte diversi e a volte coincidenti, sono i più deprivati. Non ricevono amore, e dunque occorre darglielo. Concretamente.

In tutto ciò che farà, Pavoni metterà dosi sovrabbondanti d’amore. Che si tratti di trovare spazi adeguati per l’oratorio, di impiantare una tipografia o un laboratorio meccanico, di acquistare terre per le attività agricole o di arrivare a un accordo con le autorità per il riconoscimento della congregazione, all’origine ci sarà sempre e soltanto la molla dell’amore. Perché chi si sente amato dell’amore più grande, quello di Gesù che ha donato se stesso per la nostra salvezza, non può tenere questo tesoro chiuso in una scatola, limitandosi a custodirlo. Lo deve donare a sua volta, soprattutto a chi meno ne possiede e meno l’ha conosciuto.

Nasce qui la tenerezza che Lodovico Pavoni esprime in mille forme ai suoi ragazzi. Passeggiate tutti insieme, momenti di gioco e di svago, bigliettini d’auguri fatti trovare sotto il tovagliolo, benedizione della mensa, giri serali nel dormitorio per verificare lo stato di salute di tutti. Queste sono le cose che fa un papà, non un semplice direttore di istituto né un semplice fondatore di congregazione. E Pavoni è stato proprio questo: il padre di una grande famiglia.

Far funzionare una famiglia, si sa, non è impresa semplice, soprattutto quando la famiglia ha dimensioni notevoli. Per tutta la vita Pavoni combatterà una battaglia senza sosta per ottenere più spazi, più locali, più introiti da destinare alla formazione e alla crescita dei suoi ragazzi. È esattamente ciò che fa il capo di una grande famiglia, sempre alle prese con questioni concrete da risolvere.

Di Pavoni, in questo quadro, colpisce lo spirito di sopportazione e la fiducia nella provvidenza divina. Nonostante le mille difficoltà, nonostante i rapporti spesso difficili con la burocrazia, nonostante il ricorrente assillo di trovare adeguate risorse economiche, da lui non arriverà mai una parola di collera verso persone o istituzioni. In qualche caso lascerà trapelare il disappunto, ma senza coltivare sentimenti astiosi verso gli altri. La sua grande risorsa sarà sempre la preghiera, quel suo abbandonarsi fiducioso alla volontà del Padre. Che non diventerà mai fatalismo, ma, al contrario, si tramuterà in energie sempre nuove.

Un padre, per quanto credente, non nasconde le preoccupazioni, perché non è un superuomo. E infatti padre Lodovico di preoccupazioni ne avrà tante. Ma quelle che lo angustiano di più sono legate alle singole persone, a ognuno dei suoi figli, più che alla struttura. Lettere e testimonianze ci mostrano un uomo che è più inquieto per un giovane malato, o per un caso di disubbidienza, o per una mancanza d’amore, che non per un finanziamento che non arriva o una delle tante «suppliche» indirizzate alle autorità e lasciate a lungo senza risposta. Pavoni si dedica alle vicende personali per lo meno con lo stesso vigore e la stessa passione che riserva alle questioni organizzative. Se scorge in un suo giovane uno sguardo velato dalla tristezza o avverte che qualcuno si sente trascurato, si applica alla soluzione del problema come se da quello dipendesse la tenuta dell’intera costruzione.

L’attenzione concreta ai bisogni della persona lo trasforma in autentico pioniere nel campo, all’epoca ancora tutto da esplorare, delle garanzie sociali riguardanti il mondo del lavoro.

Un solo esempio. Con oltre quarant’anni d’anticipo sulla Rerum novarum di Leone XIII (15 maggio 1891), l’enciclica con la quale la Chiesa cattolica compie una prima riflessione sui processi sociali innescati dal confronto tra capitalismo e socialismo marxista, nel 1848, l’anno in cui è pubblicato Il manifesto del partito comunista di Karl Marx, Pavoni sottoscrive con il maestro dei fabbri ferrai delle sue officine un contratto di lavoro che non solo è a tempo indeterminato, ma assicura assistenza in caso di malattia o infermità, garantisce un equo trattamento pensionistico e stabilisce che il licenziamento sarà possibile solo in caso di mancanze gravi e comunque con almeno sei mesi di preavviso.

Oggi un contratto del genere può ben essere definito da sogno, e teniamo presente che, quando Pavoni lo applica, mancano ancora diciannove anni alla prima pubblicazione del Capitale scritto dal sopra citato Marx!

Ma non basta. Nel 1845, in un altro contratto, riguardante questa volta il maestro degli intagliatori, Pavoni attua già la dottrina del salario familiare (che la Chiesa inserirà nel complesso della sua dottrina sociale nel 1931 con la Quadragesino anno di Pio XI) e anche quella della compartecipazione agli utili, le cui prime applicazioni riconosciute erano avvenute negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Francia.

La fondazione di una congregazione religiosa, nella prima metà dell’Ottocento, non è certamente un fatto isolato, anzi. Dall’inizio del XIX secolo fino all’Unità sorgono in Italia ben settantacinque nuove congregazioni, e centoventisette nascono nella seconda metà del secolo. Dei settantacinque istituti nati nella prima metà del secolo, cinquantadue appartengono all’Italia del Nord, diciannove al Centro, quattro al Sud. L’iniziativa di Pavoni si inserisce quindi in un particolare clima di fervore. Ma ciò che rende veramente unica l’intuizione del sacerdote bresciano è la natura della congregazione dei Figli di Maria Immacolata. Pavoni, infatti, rispetto alle esperienze precedenti e a tutte quelle che lo affiancano nel suo tempo, inventa una famiglia religiosa fondata su una doppia figura: accanto al religioso-prete, ecco il religioso-laico, al quale spetta il compito specifico di occuparsi della formazione professionale del giovane. Integrati e complementari, con pari dignità di consacrazione, i due religiosi si applicano a una missione che ha al suo centro il lavoro: il nuovo tipo di istituto apostolico si fa carico dell’educazione totale di giovani emarginati, privi di ogni mezzo di riscatto sociale. Il progetto formativo ha sempre come obiettivo l’educazione religiosa, ma all’interno di questo processo la formazione professionale acquista un ruolo speciale, che le dà una rilevanza sociale importante e mette in stretta relazione l’attività dell’istituto con le esigenze della comunità civile.

È così che il sacerdote e il religioso laico collaborano, alla pari, come educatori. Ed è così che il lavoro diventa, a pieno titolo, l’ambito nel quale diventa possibile sia il riscatto umano sia il dialogo dell’uomo con Dio.

Rispetto al modello contemplativo, ma anche rispetto alla tradizione degli ordini nei quali è il religioso a impegnarsi nel lavoro manuale come strumento di ascesi, la visione di Pavoni è del tutto innovativa.

Tuttavia Pavoni, negli anni successivi alla sua morte, non sarà ricordato in modo adeguato. Dopo la grande manifestazione di affetto e di venerazione tributatagli a Brescia, in occasione della prima traslazione della salma, nell’aprile del 1849, su di lui cala un lungo silenzio.

La fama di santità resta però viva. Così, il processo canonico per riconoscerla ufficialmente può iniziare, in ambito diocesano, all’inizio del nuovo secolo, nel 1908. Nel 1912 l’allora Congregazione dei riti, oggi Congregazione per le cause dei santi, decreta l’introduzione della causa di beatificazione e nel 1926 a Soncino, vicino a Cremona, viene riconosciuto il miracolo della guarigione, per intercessione di Pavoni, di una giovane gravemente malata, avvenuto nel 1909. Poi è di nuovo silenzio. Solo nel 1947 la Santa Sede riconosce l’eroicità delle virtù del servo di Dio e lo dichiara venerabile.

Nel decreto del 5 giugno di quell’anno, emanato da Pio XII, Pavoni è definito «un altro Filippo Neri, precursore di san Giovanni Bosco, perfetto emulatore di san Giuseppe Cottolengo». È un investitura solenne, eppure la causa subisce un arresto.

Il ritardo nell’avviare la fase romana del processo è dovuto inizialmente all’attesa del secondo miracolo (che fino al 1975 era necessario per passare dalla venerabilità alla beatificazione). Poi però, per ben ventisei anni, gli atti diocesani relativi al primo miracolo vengono di fatto dimenticati. La causa sarà sbloccata solo in anni molto più vicini a noi, quando, nel 2001, i Figli di Maria Immacolata presentano al Vaticano la documentazione che attribuisce all’intercessione di Pavoni duecento grazie ricevute e otto presunte guarigioni miracolose avvenute tra il 1909 e il 1986. Così, dopo che la Congregazione per le cause dei santi ha dichiarato validi gli atti relativi al miracolo del 1909, è il papa Giovanni Paolo II, il 14 aprile 2002, a dichiarare Pavoni beato.

Lo strano andamento della causa di beatificazione è sintomatico. Sembra quasi di scorgere, sullo sfondo, il Pavoni stesso, intento a depistare, a nascondere, a rallentare, come se, nella sua modestia, non volesse mettersi troppo in mostra. Oppure desiderasse replicare lo stesso andamento faticoso e complicato che contraddistinse il riconoscimento della sua congregazione religiosa.

Più lineare invece il percorso che porta alla canonizzazione, con il riconoscimento datato 9 maggio 2016 di un secondo miracolo, avvenuto in Brasile nel 2009, quasi a testimoniare l’orizzonte ormai planetario della missione pavoniana.




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